Il gioco degli scacchi nel Medioevo

In epoca medievale, i giochi con i dadi e successivamente quelli con le carte (non si sa con certezza quando le carte siano effettivamente approdate in Europa), erano considerati come passatempi da taverna legati alla fortuna e all'azzardo, legati a doppio filo col bere smodato, con le risse e le bestemmie. Gli scacchi, invece, godevano di ben altra considerazione, in quanto reputati dai predicatori come gioco d'ingegno, quindi meritevole di rispetto, una sorta di sottile e ricercato passatempo di sovrani e aristocratici.

Ebrei intenti a giocare a scacchi, dal Codice Alfonsino del 1283
Per risalire agli albori del gioco degli scacchi, bisogna guardare all'India del VI secolo; da lì si diffuse verso l'Oriente e, passando la Persia, approdò in Occidente. Durante il loro lungo percorso dall'Oriente verso l'Europa, gli scacchi furono oggetto di modifiche, alcune delle quali sostanziali. I pezzi corrispondenti al Re, al Cavallo e ai Pedoni rimasero invariati. L'arabo "Ualfil" (Elefante) divenne l'Alfiere in italiano; il "Rukh" arabo-persiano (Cammello) si tramutò nella Torre. Il Fers, il visir, il comandante dell'Oriente, cambiò addirittura sesso, divenendo la Regina. Le pedine medievali non erano libere di muoversi e nemmeno di attaccare da lontano: infatti, come avviene anche oggi, si spostavano mediante piccoli movimenti, in maniera speculare rispetto alle modalità di combattimento dell'epoca, consistenti sostanzialmente in duelli corpo a corpo.
Illustrazione tratta dal Ludus scacchorum, degli inizi del XIV secolo
Il domenicano Iacopo da Cessole, nel suo "Ludus scacchorum", dell'inizio del '300, adoperò gli scacchi per descrivere, metaforicamente, la società medievale: la scacchiera è la città in cui si spostano i rappresentanti delle classi sociali, con i loro pregi e difetti.
La sempre maggiore diffusione del gioco fece crescere il numero di appassionati, a proposito dei quali, c'è un curioso episodio da descrivere: una novella del Sacchetti racconta di un sacerdote, grande amante degli scacchi, che era solito vincere sempre contro un gentiluomo con il quale trascorreva il suo tempo. Un bel giorno però, finì con la casa bruciata, perché obbligando ogni volta i contadini a recarsi ad appurare la sua vittoria al suono della campana, nel momento in cui li chiamò allarmato, per avere un aiuto nello spegnere l'incendio, fu lasciato solo davanti alle fiamme. I fedeli, evidentemente stanchi di dover lasciare ogni volta il lavoro dei campi per soddisfare i capricci del sacerdote, credettero che i rintocchi della campana annunciassero, ancora una volta, lo scaccomatto.

Miniatura del codice Alfonsino, 1283
  Il gioco degli scacchi si diffuse talmente tanto e divenne così popolare, nel medioevo, da venir inciso su moltissimi cofanetti e copertine di specchi in avorio del XIV e XV secolo; i giocatori erano sempre sovrani, dame e cavalieri, cosa che lo ergeva sempre più a simbolo dell'aristocrazia. William Tronzo, nella sua esegesi, evidenziò che il gioco dei dadi, soggetto all'elemento fortuna, faceva esplodere la violenza delle risse; quello degli scacchi, che implicava riflessione e intelligenza, aveva al contrario solo risvolti benefici e positivi.

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